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Quando il progetto diventa rivoluzione: viaggio nel radical design italiano

Posted on 8 Agosto 20258 Agosto 2025

C’è stato un momento, tra la fine dei Sessanta e l’alba dei Settanta, in cui le sedie si fecero gonfiabili, le città diventarono diagrammi infiniti e la parola «radicale» smise di essere insulto per diventare bandiera. Il radical design, nato soprattutto a Firenze ma presto riverberato su riviste e mostre internazionali, non fu una corrente estetica: fu un gesto politico che usò oggetti e disegni-manifesto per contestare consumismo, burocrazie urbane e buon gusto borghese. Oggi quelle provocazioni, conservate in musei o rieditate in tirature limitate, tornano sul mercato dell’usato come testimonianze di un’epoca agitata ma generosa di idee che parlano ancora al nostro presente.

INDICE

  1. Anni di fuoco: perché nasce il radicalismo progettuale in Italia
  2. Firenze, epicentro creativo: Archizoom, Superstudio e l’onda toscana
  3. Utopie grafiche: No-Stop City e il Monumento Continuo
  4. Oggetti contro la routine: sedute inflatables, divani modulari, lampade-scultura
  5. Dal dissenso alla festa: Alchimia, Gruppo Strum e le contaminazioni pop
  6. Voci soliste in dialogo con la scena radical
  7. Caratteri distintivi: ironia, materiali poveri e disegno come narrazione
  8. Architettura radicale: quando la città diventa idea più che costruzione
  9. Dalla ribellione al mercato: mostre, fondazioni e Italian Radical Design
  10. Il valore collezionistico: originali, riedizioni e occasioni certificate
  11. Come inserire un pezzo radical in interni contemporanei
  12. Conclusioni – Un’eredità viva che continua a chiedere (e dare) futuro

1. Anni di fuoco: perché nasce il radicalismo progettuale in Italia

La scintilla del radical design si accende sullo sfondo di contestazioni studentesche, boom televisivo e pianificazione urbana percepita come gabbia. In architettura domina ancora l’eco del Razionalismo; nel design, la ricetta del “buon prodotto” funzionale e discreto sembra dogma indiscutibile. Ma una generazione di neolaureati – cresciuta tra cantieri in espansione e manifesti situazionisti – vuole altro: non oggetti che servano, bensì oggetti che parlino, protestino, inducano a ripensare il rapporto fra individuo, tecnologia e natura. Radicale, nel loro lessico, non significa estremista in senso politico, bensì “che va alla radice” delle cose per strapparle alla consuetudine.

2. Firenze, epicentro creativo: Archizoom, Superstudio e l’onda toscana

Se Milano era la capitale dell’industria, Firenze diventa il laboratorio delle utopie. Nel 1966 nasce Archizoom Associati – Andrea Branzi, Paolo Deganello, Gilberto Corretti, Massimo Morozzi – subito seguiti da Superstudio di Cristiano Toraldo di Francia e Adolfo Natalini. I loro studi, poco più che loft affollati di schizzi e fogli lucidi, producono collage che sovrappongono autostrade a cattedrali gotiche, tappezzerie optical a paesaggi toscani; un modo per dire che l’architettura non è muratura ma «sistema simbolico» capace di condizionare comportamenti. All’università, le loro lezioni riempiono aule di studenti affamati di nuove prospettive: nasce così una comunità fluida che include gruppi minori – UFO, 9999, Zziggurat – e rende il capoluogo toscano la “culla dell’avanguardia”.

3. Utopie grafiche: No-Stop City e il Monumento Continuo

Tra il ’68 e il ’72 l’architettura radicale raggiunge la massima densità visionaria. Archizoom elabora No-Stop City: un’ipotetica metropoli isotropa, senza gerarchie, dove l’arredo si riduce a tappeti stampati di prese elettriche e la privacy è affidata a tende di plastica traslucida. Superstudio risponde con il Monumento Continuo, una griglia ininterrotta che avvolge montagne, oceani, grattacieli, proponendo la città come rete mentale più che luogo fisico. Questi progetti – pubblicati su Domus e Casabella, esposti alla Biennale di Parigi – diventano icone di critica alla «decrescita infelice» del suburbio e al culto illimitato del consumo. Non a caso molti studenti li definiscono «poesie disegnate».

4. Oggetti contro la routine: sedute inflatables, divani modulari, lampade-scultura

Il radical design non resta su carta: filtra negli oggetti quotidiani per sabotarne la passività. Archizoom sforna Safari e Mies, poltrone gonfiabili in PVC leopardato che prendono in giro la rispettabilità del salotto borghese; Superstudio firma il divano Bazaar, serie di cubi in poliuretano accostabili come Lego;

Gaetano Pesce modella l’iconica Up5-6, poltrona “mamma” che denuncia status e stereotipi femminili. Lampade come Mach 2000 di Studio Alchimia o le sculture luminose di Ugo La Pietra trasformano l’illuminazione in racconto cromatico. Persino la plastilina e il cartone pressato diventano materiali nobili perché capaci di farsi e disfarsi con leggerezza, in linea con l’idea che l’oggetto non debba durare per sempre ma per quanto serve a comunicare un messaggio.

5. Dal dissenso alla festa: Alchimia, Gruppo Strum e le contaminazioni pop

Col volgere verso gli anni Settanta l’urgenza politica si mescola a seduzione pop. Studio Alchimia, fondato da Alessandro Mendini a Milano, colora di smalti kitsch arredi neoclassici, prefigurando il postmodernismo. A Torino, Gruppo Strum riallaccia la critica sociale all’arte povera, posando sedute-installazioni nelle piazze come provocazioni urbane. Queste realtà dialogano con la cultura musicale – rock, new wave, prog italiano – e con i fumetti, generando un lessico di pattern cartoon che anticipa l’estetica Memphis. Nella stessa fase si diffonde la definizione “design radicale italiano”, usata dalla stampa estera per descrivere un fenomeno insieme culturale e stilistico.

6. Voci soliste in dialogo con la scena radical

Ettore Sottsass, già noto per le macchine da scrivere Olivetti, osserva con simpatia il movimento e partecipa con ceramiche totemiche e Superboxes laminate; Gaetano Pesce sperimenta resine colate in stampi destrutturati, ottenendo pezzi unici dal sapore pop-surrealista; Ugo La Pietra, architetto-artista milanese, teorizza la «riappropriazione dell’ambiente urbano» attraverso dispositivi effimeri. Pur non aderendo formalmente a un manifesto, queste figure amplificano il radicalismo con opere che ibridano arte, sociologia e impresa, dimostrando che il progetto può essere insieme riflessione critica e prodotto commerciabile.

7. Caratteri distintivi: ironia, materiali poveri e disegno come narrazione

Che cosa rende “radicale” un oggetto? Innanzitutto l’ironia: il divano può sembrare un giocattolo gonfiabile, la lampada un animale tropicale. Poi la scelta di materiali non convenzionali – PVC, gommapiuma, laminati plastici economici – per sottrarre all’élite la proprietà del design. Infine il disegno-manifesto: ogni arredo vive di schizzi, collage, fotoritocchi che lo precedono e lo raccontano; spesso il progetto vale quanto, se non più, dell’oggetto finito. In questo senso il radicalismo fa da ponte tra la disciplina e il mondo dell’arte concettuale, anticipando la pratica odierna del “design come storytelling”.

8. Architettura radicale: quando la città diventa idea più che costruzione

Molte utopie rimangono su carta proprio perché nate per essere critiche, non cantieri. Archizoom e Superstudio sostengono che «la forma segue le ideologie», non solo la funzione. Le loro maquette di plexiglass e luci psichedeliche, esposte in mostre come Utopie Radicali a Palazzo Strozzi, dimostrano che l’architettura può influenzare la società anche senza posa della prima pietra. All’estero, alcuni concetti saranno ripresi da gruppi inglesi come Archigram e dai metaboli giapponesi, confermando la portata internazionale del fenomeno.

9. Dalla ribellione al mercato: mostre, fondazioni e Italian Radical Design

Con la fine degli anni Settanta molti collettivi si sciolgono, ma i loro prototipi entrano in collezioni museali – MoMA, V&A, Centre Pompidou – e gallerie specializzate. Nel 2021 il marchio Memphis Milano viene acquisito da Gufram per creare il polo Italian Radical Design, segnando il riconoscimento industriale di un’eredità contro-sistema. Fondazioni private e archivi digitali catalogano disegni, manifesti, fotografie; università e fiere del design (Salone del Mobile incluso) dedicano padiglioni celebrativi dove i visitatori possono sperimentare sedute gonfiabili o tuffarsi in render immersivi delle città-utopia.

10. Il valore collezionistico: originali, riedizioni e occasioni certificate

Se negli anni Settanta molti pezzi venivano prodotti in piccole serie o addirittura autoprodotti, oggi le loro quotazioni oscillano da poche migliaia di euro per un Superonda di Archizoom fino a cifre a sei zeri per i primi esemplari di Up5-6 o per i collage originali di Superstudio. Accanto alle aste internazionali, il mercato dell’usato qualificato offre opportunità più accessibili: su Deesup compaiono a rotazione sedute Safari originali, tavoli Banchetto di Pesce o lampade Alchimia, ciascuno verificato da periti che controllano etichette, materiali e patina. Una soluzione per chi desidera vivere la storia senza rinunciare a trasparenza e sostenibilità.

11. Come inserire un pezzo radical in interni contemporanei

Adottare un arredo radical non significa trasformare la casa in un museo pop. In un living dai toni neutri basta un divano Superonda – due blocchi curvi di poliuretano rivestiti in tessuto tecnico – per creare un’isola relax che spezza la linearità. In uno studio minimal, una lampada Mach 2000 diventa accento scultoreo e fonte di luce puntuale sulla scrivania. Il segreto è lasciare respiro all’oggetto, magari richiamandone un colore in dettagli discreti (una stampa, un cuscino) e puntando su fondali materici – pareti in calce, parquet naturale – che valorizzino la vivacità radicale senza creare saturazione visiva.

12. Conclusione – Un’eredità viva che continua a chiedere (e dare) futuro

Il radical design non ha costruito grattacieli né colonizzato mercati di massa, ma ha seminato dubbi fecondi: a che serve un oggetto se non ci fa pensare? Quanta libertà siamo disposti a concedere ai nostri spazi? Domande rimaste sospese, ma più attuali che mai davanti a crisi climatiche e algoritmi che propongono arredi standardizzati. Riprendere in mano un pezzo radical – nuovo o usato, magari scovato su Deesup – significa riattivare quell’energia critica che spinge a ridisegnare il quotidiano con ironia e consapevolezza. Perché, come ricordava Andrea Branzi, «il design è una forma di speranza» – una speranza che, a cinquant’anni di distanza, continua a brillare di colori acidi e idee capaci di mettere in discussione l’ordinario.

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