La sedia Panton ha un design così straordinario e unico da non sembrare un oggetto industriale pensato per l’uso comune, bensì un’opera d’arte. È un concetto, un racconto astratto ed estetico di qualcosa di ben più profondo, non scollegandosi però dal reale. La sua grandezza sta proprio nel suo saper riassumere un’approfondita e lunga ricerca finalizzata a ottenere un qualcosa di assolutamente utilizzabile e consumabile giorno dopo giorno, senza perdere mai il suo spirito.
Ebbene, quando il design è di altissima qualità ed è così originale, ecco che assume significato incontrando di pari passo grande successo di pubblico: questo rende l’oggetto quella che ormai è comunemente chiamiamo icona. Il merito di questo capolavoro è del poliedrico e polivalente Verner Panton. Il designer danese modellò plasticamente i concetti del design della sua terra, minimale e geometrico, per sfidare gli stilemi della sua epoca. Ma pure le leggi della tecnica e della fisica: tutto pur di creare qualcosa di realmente innovativo.
Verner Panton, un designer visionario
Siamo alla fine degli anni ’50, Verner prende ispirazione da alcune sedie disegnate negli anni ’20 e ’30, e inizia a lavorare al suo progetto. I primi prototipi risalgono al 1960. Solo dopo anni di sperimentazioni e tentativi per creare una sedia in plastica realizzata con un pezzo unico, presenta l’idea a Vitra nel 1967. Dopo vari rifiuti, fu il primo produttore ad accettare la sfida. A cogliere le potenzialità della sedia fu Rolf Fehlbaum, figlio del fondatore di Vitra Willi, che vedendo il prototipo ne rimase molto colpito suggerendo di dare una chance a quell’idea.
Vennero realizzati solo 150 esemplari della sedia Panton come primo lancio, l’inizio di un lungo viaggio fatto di tentativi e cambiamenti per raggiungere la perfezione. Infatti, far combaciare la volontà del designer di lavorare un pezzo unico con la necessità di stabilità richiese alcune modifiche del progetto originale. Così come non mancarono sperimentazioni con i materiali. Si iniziò con fibra di vetro e poliestere, una soluzione che però risultò troppo laboriosa ed estremamente lenta, rendendo la produzione complicata e non al passo con la crescente richiesta di massa. Vitra dunque impiegò il poliuretano per la finitura lucida, utilizzato ancora oggi, e dagli anni ‘70 il polistirolo termoplastico, sostituito negli anni ’90 invece dal polipropilene, più resistente e facile da lavorare, per la finitura opaca.
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La sedia Panton è un capolavoro e non è tale solo per retorica. Lo è perché è il frutto della cooperazione di svariate discipline, che il designer danese ha saputo modellare e piegare a suo piacimento per dare forma a un proprio visionario progetto. Architettura, design, ingegneria, arte e comunicazione si ritrovano in questo perfetto esempio di stile scandinavo fatto di rigidità e morbidezza al contempo. Una sedia universale pur raccontando con chiarezza l’entusiasmo di quando nacque. Le sue forme sinuose seguono quelle del corpo mantenendo però rigidità e stabilità, come solo una scultura saprebbe fare. Esposta nei musei, oggetto d’arredo nelle case di tutto il mondo anche in formato junior per bambini, icona fulgida dell’epoca d’oro del design, è tutto e il contrario di tutto.
Curiosità sulla sedia Panton
La sedia Panton nel 1971 è stata protagonista, in un certo senso, di un servizio fotografico super sexy con Amanda Lear per la rivista britannica Nova, dal titolo How to undress in front of your husband. L’artista è stata ritratta in ogni fase dello spogliarello seduta su una Panton rossa fiammante, che esaltava la sensualità delle foto e soprattutto di Amanda. Non poteva che essere scelta questa seduta, così moderna, trasgressiva ma soprattutto organica. Infatti, Verner voleva che sembrasse un tutt’uno con la terra o il pavimento, che si richiamasse il movimento ondulatorio della natura e all’anatomia umana, ma che contemporaneamente rappresentasse la solidità dei prodigi della tecnica e della tecnologia. Un elemento di rottura, che ha riscritto l’estetica e il modo di arredare, ed è ancora oggi apprezzata e desiderata. Siamo sicuri che il design sia solo design?